Script per monitoraggio pagine menu ciociaria

TERRA CIOCIARA: STORIA - URBANISTICA - FOLKLORE - AMBIENTE


NEL SECOLO DEL RINASCIMENTO

"NELLA GUERRA CONTRO IL DOMINIO STRANIERO"

Dal dicembre 1526 al febbraio dell’anno seguente Frosinone scrisse una pagina storica che le dette onore e la collocò nel ruolo delle città che lottarono per rigettare dall’Italia il dominio straniero.

Intendiamo parlare della guerra combattuta contro Carlo V, dalla lega di Cognac, che unì Stato Pontificio, Repubblica di Venezia, Ducato di Milano e Francia per dare indipendenza agli stati italiani. Purtroppo la guerra andò male e si raggiunse esattamente il risultato opposto a quello che si perseguiva. La disavventura fu dovuta a vari fattori: tradimenti, invidie e gelosie di comandanti, mancanza di un piano sicuro, scarsezza di impegno, nefasta incertezza di Clemente VII.

Tutto ciò però niente toglie alla gloriosa azione di cui i frusinati furono insieme spettatori e protagonisti.

Rievochiamone la memoria. Il 24 febbraio 1525 aveva avuto luogo la storica battaglia di Pavia, nella quale le truppe di Carlo V avevano vinto quelle francesi, prendendo prigioniero lo stesso re Francesco I.

Il re di Francia, che in quella circostanza avrebbe scritto la frase: «Tutto è perduto fuorché l’onore e la vita», fu portato a Madrid e, dopo un anno di prigionia, riebbe la libertà il 18 marzo 1526, a seguito del trattato Madrileno del 14 gennaio 1526. La vittoria aveva fatto di Carlo V il padrone dell’Europa, ma soprattutto dell’Italia.

Allora i maggiori stati italiani, tolto logicamente quello di Napoli perché spagnuolo, formarono la lega di Cognac il 22 maggio 1526. Di questa faceva parte anche Francesco I che poi in effetti non potè prestare tutti gli aiuti attesi e necessari. «La lega di Cognac si presentava agli italiani come un grande sforzo verso la liberazione della penisola da qualunque dominazione straniera e perciò destava molti entusiasmi».

Genova mise a capo della flotta Andrea Doria, il Guicciardini, che aveva esultato per quell’impresa, fu nominato luogotenente pontificio, Giovanni delle Bande Nere guidava le sue milizie, il duca d’Urbino ebbe il comando generale delle forze della lega. Quest’ultimo però mirava più ad umiliare la casa Medici anzichè fare onore al nome italiano e così trascurò di portare aiuto allo Sforza, assediato a Milano, nonostante le rampogne del Guicciardini.

La guerra aveva due fronti, uno nell’Italia settentrionale, specie in Lombardia, l’altro nelle province dello Stato Pontificio confinanti con il Regno di Napoli. In questo secondo scacchiere, che è quello che ci interessa da vicino, i Colonna, sempre ostili al Papa, s’incaricarono di fare andare a male i piani della lega.
L’esponente maggiore colonnese era il card. Pompeo Colonna, il quale, non essendo riuscito Papa nell’ultimo conclave, sperava di diventarlo con l’aiuto di Carlo V.
I colonnesi il 22 settembre 1526 marciarono su Roma con 5.000 uomini e, dopo aver messo a sacco il quartiere vaticano, si ritirarono nei loro castelli per disturbare da Paliano, Montefortino e Rocca di Papa il passaggio dei soldati pontifici e della lega che andavano verso il fronte napoletano.
«Un anno dei più funesti e lagrimevoli, scrive il Muratori, che si abbia mai avuto in Italia... guerra arrabbiata e come turchesca fra le milizie del papa e quelli dei colonnesi, sostenute dalle cesaree del regno di Napoli, perché tutto si metteva a ferro e fuoco».

Tale stato di cose rendeva sempre più incerto Clemente VII che aveva fatto della pace il programma del suo pontificato, molto più che in quel tempo i Turchi avevano espugnato Buda e annientato gli Ungheresi. A questo si aggiungeva il lavoro diplomatico per indurre il papa all’armistizio e al disarmo.

Intanto il viceré di Napoli, Carlo Lannoy, passa il Garigliano presso Ceprano, e invade la Ciociaria.

Il 22 dicembre 1526 si accampa presso Frosinone e cinge d’assedio la città. Quivi Renzo Ceri, comandante dei soldati della lega, vi aveva precedentemente stanziato 1800 fanti, comandati da Alessandro Vitello da Città di Castello e la cavalleria comandata da Alessandro Vitelli, Giambattista Savelli e Pietro da Birago.

Frosinone, come ha sottolineato il Guicciardini, era senza mura. Il De Simondi la dice «Borgata senza mura, ma assai forte di sito».

Riproduzione di una mezza colubrinaIl vicerè di Napoli dunque cinse d’assedio Frosinone e vi piazzò contro «Tre mezzi cannoni e quattro mezze colubrine». Incominciò il bombardamento, ma il 24 dello stesso dicembre gli vennero meno le munizioni e dovette cessarlo.

Sperava che gli assediati si sarebbero arresi per fame e quindi impediva che vi entrassero vettovaglie. Ma il morale dei frusinati e delle truppe era molto alto, fino al punto «Che ricusarono quattrocento fanti che i capitani dell’esercito volevano mandare dentro in loro soccorso».
Mentre si prolungava l’assedio, i soldati di Frosinone riuscirono a compiere delle azioni audaci. Un giorno sgusciarono dal paese trecento fanti, accompagnati dalla cavalleria e, spingendosi a un mezzo miglio da Amara, piombarono sul campo degli spagnuoli, si impadronirono di due bandiere, uccisero il capitano Peralta con ottanta fanti e ne presero prigionieri molti altri.

Ma in questo frattempo si era trattato l’armistizio e così il 31 gennaio 1527 fu firmata una tregua. Secondo i patti nessuno dei due opposti eserciti si doveva muovere. Ma non fu così. A Ferentino c’era il comando e il forte dell’esercito della lega.
Questo avanzò verso Frosinone, giunto al ponte sul fiume Cosa, vi trovò i soldati dell’imperatore, attaccò battaglia e vinse, uccidendo sul luogo 200 uomini prendendone prigionieri altri 400 e catturando tutte le bandiere.
I soldati che erano dentro Frosinone lasciarono il primo colle (Giardino) alle truppe arrivate e si ritirarono in altro punto del paese.

Due giorni dopo il vicerè di Napoli abbandonò il campo e prese la via del ritorno. Il Muratori, riferendo brevemente il fatto, Si esprime così: «Andò il vicere all’assedio di Frosinone e vi stette sotto alquanti giorni, ma inoltratosi Renzo da Ceri col Vitelli e con l'esercito pontificio gli toccò una spelazzata per cui fu obbligato a ritirarsi».

Questa vittoria dette animo alla lega e si pensò di portare la guerra nel regno di Napoli. Sappiamo anche che Francesco I aveva chiesto per sé quel regno; purtroppo, però lui non mandò gli aiuti necessari, il Papa aveva smobilitato l’esercito e cosi l’impresa fallì.
Frattanto dal settentrione scesero i Lanzichenecchi e questi il 7 maggio 1527 piombarono a Roma, uccisero 20.000 su 50.000 abitanti, profanarono, dissacrarono ogni cosa e compirono orgiasticamente azioni così orripilanti da fare impallidire il sacco di Roma perpetrato da Alarico nel 410.

Dopo qualche anno si spensero gli ultimi fuochi. In tal modo furono tristemente ammainate le ultime bandiere delle «liberta d’Italia» e «la penisola si adagiò sotto il governo straniero (spagnolo), perdendo l’indipendenza e, ciò che e ancor peggio, ogni resto di coscienza civile».

Padre Ignazio BARBAGALLO Agostiniano Scalzo

(FROSINONE - Lineamenti storici dalle origini ai nostri giorni)
- "Editrice Frusinate 1975"

Per le citazioni storiche, la bibliografia ed altro, si rimanda ad una consultazione diretta dell'opera.

INIZIO PAGINA